Vino, voci dalla cultura

«Sempre pronto a una nuova idea e a un antico vino».
(Bertold Brecht, drammaturgo tedesco, 1898-1956)

«La guerra del gusto»

Ci sono anche paesaggi toscani e sardi, in «Mondovino», il film in concorso al 57esimo Festival di Cannes che parla dell’impatto della globalizzazione sulle regioni produttrici di vino. Con scenari dell’Argentina, della Francia e degli States scorrono immagini girate tra Firenze e Bolgheri, terra dei “supertuscans” ... - LEGGI TUTTO

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«Il vino parla. Lo sanno tutti. Guardati in giro. Chiedilo all'indovina all'angolo della strada, all'ospite che non è stato invitato alla festa di nozze, allo scemo del villaggio. Parla. E' ventriloquo. Ha un milione di voci. Scioglie la lingua, svela segreti che non avresti mai voluto raccontare, segreti che non sapevi nemmeno di conoscere. Grida, declama, sussurra. Racconta grandi cose, progetti meravigliosi, amori tragici e tradimenti terribili. Ride a crepapelle. Soffoca piano una risata fra sé. Piange per i suoi stessi pensieri. Riporta alla mente estati di molto tempo fa e ricordi che è meglio dimenticare. Ogni bottiglia un soffio di altri tempi, di altri luoghi e ciascuno è un piccolo miracolo, dal più comune Liebfraumilch all'imperioso Veuve Clicquot 1945. Magia quotidiana, così la chiamava Joe. La trasformazione di una ...
sostanza di base in quella dei desideri. Alchimia dei profani.
Prendi me, per esempio. Fleurie 1962. Ultima sopravvissuta di una cassa da dodici, imbottigliata e messa in cantina l'anno in cui nacque Jay. Un vino vivace e garrulo, gradevole e appena esuberante, con una nota aspra di ribes nero, proclamava l'etichetta. Non esattamente un vino che si conservi, invece è successo. Per nostalgia. Per un'occasione speciale. Un compleanno, forse un matrimonio. Ma i suoi compleanni trascorrevano senza festeggiamenti, a bere del rosso argentino e guardando vecchi western. Cinque anni fa mi pose sulla tavola apparecchiata con candelieri d'argento, ma non accadde nulla. Però la ragazza rimase. Insieme a lei arrivò un esercito di bottiglie, Dom Pérignon, vodka Stolichnaya, Parfait Amour e Mouton-Cadet, birre belghe in bottiglie dal collo lungo, vermouth Noilly Prat e Fraises des Bois. Anche loro parlano, di sciocchezze soprattutto, un chiacchiericcio metallico come ospiti che tentano di socializzare a una festa. Ci rifiutammo di avere a che fare con loro. Fummo spinte verso il fondo della cantina, noi tre sopravvissute, dietro alle file scintillanti delle nuove arrivate, e lì rimanemmo, dimenticate, per cinque anni. Château Chalon '58, Sancerre '71, e io. Château Chalon, seccato per la retrocessione, finge di essere sordo e spesso non vuole parlare affatto. Un vino generoso, di grande carattere e personalità, dice nei rari momenti in cui si apre. Gli piace ricordarci la sua maggiore anzianità, la longevità dei vini gialli del Giura. Ne va molto fiero, così come del suo bouquet mielato e del suo straordinario lignaggio. Sancerre si è fatto acetoso da tempo e parla ancor meno, ogni tanto sospira appena per la giovinezza svanita. E poi, sei settimane prima dell'inizio di questa storia, arrivarono le altre. Le straniere. Le Speciali. Le intruse che hanno dato il via a tutto, anche se loro stesse sembravano dimenticate dietro alle nuove, splendenti bottiglie. Erano sei, ciascuna con una piccola etichetta scritta a mano e una capsula di cera di candela. Ogni bottiglia aveva una cordicella di colore diverso annodata intorno al collo: rosso lampone, verde sambuco, blu mora, giallo frutto della rosa, nero susina selvatica. L'ultima bottiglia, legata con una corda marrone, era vino che non avevo mai sentito nominare. Speciali 1975, diceva l'etichetta, la grafia sbiadita nel colore del tè vecchio. Ma all'interno c'era un alveare brulicante di segreti. Non c'era modo di sfuggire: ai loro mormorii, ai loro fischi, alle loro risate. Fingevamo indifferenza alle loro stramberie. Dilettanti. Non una traccia d'uva, in nessuno di loro. Erano inferiori, e sopportavamo malvolentieri la loro presenza fra di noi. Eppure c'era una sfacciataggine attraente in questi sei filibustieri, un incontro febbrile di gusti e immagini che avrebbe fatto vacillare vitigni ben più sobri. Ovviamente non ci degnavamo di parlare con loro. Ma quanto lo desideravo. Forse per quel retrogusto plebeo di ribes nero che ci univa.
Dalla cantina si udiva tutto quello che accadeva in casa. Riconoscevamo gli eventi dall'andirivieni dei colleghi che ci venivano preferiti: il venerdì sera dodici birre e risate all'ingresso, la sera prima una sola bottiglia di un rosso californiano così giovane che si poteva quasi sentire l'odore di tannino, la settimana precedente - il compleanno di lui, guarda caso - una mezza bottiglia di Moët, una demoiselle, la misura più solitaria ed esplicita, e il lontano suono nostalgico di spari e zoccoli di cavalli dal piano di sopra. Jay Mackintosh aveva trentacinque anni. Senza segni particolari tranne gli occhi che erano indaco come il pinot noir, aveva quell'aria stranita, leggermente sorpresa, di un uomo che ha smarrito la strada. Cinque anni prima Kerry aveva trovato quest'aspetto attraente. Ma ormai non la appassionava più. Nel suo essere passivo c'era qualcosa di profondamente fastidioso che celava un'essenza testarda. Precisamente quattordici anni fa, Jay aveva scritto un romanzo intitolato Tre estati con Joe Patata. Lo saprai di certo. In Francia vinse il premio Goncourt e fu tradotto in venti lingue. Festeggiarono la sua pubblicazione tre casse di Veuve Clicquot del '76, bevuto troppo giovane per fargli giustizia, ma a quel tempo Jay era sempre così, precipitoso verso la vita come se non dovesse prosciugarsi mai, come se quanto era imbottigliato dentro di lui dovesse durare per sempre, successo dopo successo, in una festa senza fine.
A quel tempo non c'era cantina. Stavamo sul camino sopra la sua macchina per scrivere, come portafortuna, diceva. Quando finì il libro aprì l'ultima delle mie compagne del '62 e la bevve molto lentamente, girando e rigirando il bicchiere in mano dopo averla finita. Poi si avvicinò al camino. Stette lì fermo per un istante. Poi sorrise e ritornò, in equilibrio un po' precario, verso la sua sedia.
«La prossima volta, tesoro», promise. «Rimandiamo alla prossima volta».
Vedi, lui mi parla, così come un giorno sarò io a parlargli. Sono il suo più vecchio amico. Ci capiamo. I nostri destini sono intrecciati... ». (da Vino, patate e mele rosse di Joanne Harris)

 

JOANNE HARRIS

Vino, patate e mele rosse

Garzanti editore

Pagine: 364

Prezzo: 10,90

Le parole del vino

FINE - Vino armonico nel gusto ed elegante nel profumo.

GOUDRON – Termine francese che significa catrame, indica il profumo caratteristico di grandi vini rossi invecchiati, come il Barolo.

RUVIDO - Vino giovane appena spillato, con sospensione di sostanze solide.

Il vino nel Medioevo

Il Medioevo è un’epoca di grande splendore per il vino e la viticoltura. Nei secoli in cui non si conoscono ancora il tè, il caffè e le bevande alcoliche diffuse dopo la scoperta dell’America, il vino è un elemento importante della nutrizione perché “rende grassi e floridi, allontana i mali fisici, dà gusto alla vita, aguzza i sensi e rende ... - LEGGI TUTTO

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